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Imparare l’arte del silenzio può salvarci la vita.

Immagine del redattore: Viviana GuariniViviana Guarini

Sviluppo della traccia di maturità 2024: se ai più giovani vogliamo insegnare il silenzio, dobbiamo prima imparare ad amarlo nuovamente noi.



Lo scorso anno ho partecipato a una bellissima challenge proposta dalla testata Senza Filtro, in cui si chiedeva agli adulti di rimettersi in gioco, provando a sviluppare una traccia di italiano scegliendo tra quelle proposte per la maturità.

Scelsi quindi una traccia inerente al tema dell’attesa ai tempi di whatsapp.

Quel “gioco” mi è piaciuto così tanto che quest’anno ho deciso nuovamente di cimentarmi in questa prova, scegliendo la traccia sul tema della riscoperta del silenzio (potete leggere la traccia completa qui).



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Svolgimento.



Nicoletta Polla - Mattiot nel brano tratto dal libro “Riscoprire il silenzio. Arte, musica, poesia, natura fra ascolto e comunicazione”, pone il focus sull’importanza e sul significato del silenzio in relazione all’altro. 


Al silenzio viene assegnato un ruolo attivo, e non più passivo: il silenzio si sceglie così come si sceglie in maniera volontaria di rompere il silenzio stesso attraverso l’eloquio. 

Così nell’atto verbale, dice l’autrice, viene riconosciuto l’altro e si viene riconosciuti dall’altro, ascoltatore.

Con queste premesse Polla - Mattiot sottolinea l’importanza del lavorare non solo sull’autenticità del silenzio ma sull’attribuzione al silenzio stesso di uno spazio mentale, non solo acustico. 

Nella conclusione, infine, viene quindi assegnato un valore non secondario all’ascolto, elemento indispensabile nell’atto dialogico e che racconta, perciò, un’altra forma di silenzio.


Dalla tesi esposta da Polla - Mattiot emerge con forza il ruolo dell’altro in confronto all’io, al bisogno incessante di dialogismo e al mancato riconoscimento del silenzio come atto sociale, relazionale e politico.


Attraverso la parola si entra in relazione con, si riconosce l’altro come alterità, come qualcosa di altro rispetto a me e al mio pensiero. 

Nella capacità di alternare il silenzio alla parola, nel rispetto delle pause, nell’attuazione dell’ascolto attivo “germina la possibilità” di comprensione, e questa sembra essere tra i principali benefici apportati dal silenzio, così come anche la relazione intima tra il silenzio e la capacità dell’attesa.


L’autrice pone importanti spunti di riflessione sul ruolo del silenzio, in una società in cui dal silenzio fuggiamo sempre più e sempre più velocemente perché il silenzio ci fa paura.


Il silenzio ci pone in una situazione in cui può essere impossibile sfuggire a se stessi. 

Il silenzio ci pone in condizione di ascolto, soprattutto di noi stessi, prima che dell’altro. 

Per citare un’altra autrice che ha scritto un saggio illuminante sul tema del silenzio, Chandra Livia Candiani, il “silenzio è cosa viva”.


Siamo condotti a credere, a causa delle storture imposte da una società turbocapitalista che sulla fretta ha fondato tutta la sua ricchezza, che il silenzio significhi assenza, improduttività, fragilità. 


Releghiamo il silenzio all’inutilità, perché non è tangibile, non è misurabile, non è monetizzabile.


Eppure è solo nel silenzio, quello autentico e profondo, che è possibile dare voce al sentire più che al pensare, al sentire profondo che ci racconta, senza autonarrazioni, chi siamo e cosa desideriamo.

Cosa ci ferisce e cosa ci reca gioia.





Tuttavia, in leggera discordanza con Polla - Mattiot, non ritengo che nella scelta di smettere di tacere si attui il primo riconoscimento dell’altro.

Ritengo, piuttosto, che vi sia soprattutto nel silenzio il germoglio del riconoscimento dell’alterità, laddove per riconoscimento si intende il conferire identità e dignità a qualcosa di altro da me.

Il silenzio, anch’esso, ha diverse forme.

Esiste il silenzio meditativo, quello punitivo, quello di condivisione della quiete o della sofferenza, il silenzio che rispetta lo spazio dell’altro.


Il silenzio genera comprensione ed è solo nella comprensione che io posso davvero riconoscere l’altro in quanto tale.


La forma verbale, spesso, più che configurarsi come una scelta di riconoscimento dell’altro, finisce per diventare una volontà di sopruso verso l’altro, soprattutto laddove, come sottolinea anche l’autrice del brano in questione, non sono in grado di passare velocemente dal ruolo di parlante a quello di ascoltatore, capace di rispettare le pause e di non farmi guidare dal giudizio o dal pregiudizio mentre sono nella fase di ascolto.


Il dialogo, tuttavia, oggi non vede solo la sua espressione nella parola verbale ma, sempre più, in quella scritta. 

Con l’avvento e la dittatura dei social network e della messaggistica istantanea ci siamo trasformati in urlatori seriali, in dialoganti senza contraddittorio, in maestri di monologhi in cui l’altro è nel migliore dei casi un altro idealizzato, una riproduzione virtuale dell’idea che io ho dell’altro. 


Nel peggiori dei casi, invece, l’altro è un altro indefinito, una platea senza volto, né con anima distinta, a cui rivolgersi costantemente per un bisogno continuo di approvazione e auto - riconoscimento.

I like, i commenti, le condivisioni, infatti, sono tutti privi di reale ri-conoscimento della nostra identità, ma per mezzo delle scariche di dopamina che costantemente ci donano, ci regalano l’illusione di un riconoscimento che diventa tale solo perché siamo noi ad attribuirgli quel significato.

E in questa fretta della parola, abbiamo disimparato non solo a fare silenzio ma anche ad attendere.


Nell’attesa io posso davvero crescere, imparare, soffrire, gioire e quindi dare a me stesso, e all’altro, un diritto all’esistenza.


La parola, in questo dialogismo continuo, spesso viene svuotata di significato e di significante, diventando solo il mezzo per salire un altro gradino più su sulla piramide di un successo illusorio. 

In questo dialogismo continuo, la parola diventa il mezzo con cui la società capitalistica si arricchisce ai danni della nostra autenticità e dei nostri bisogni più profondi, una società che ci vuole soli un una rete iperconnessa, muti ma mai in silenzio. 


Figuranti sorridenti ma mai, realmente, felici.









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