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Digital e social detox: come riprendersi (veramente) la vita reale.

Immagine del redattore: Viviana GuariniViviana Guarini


Ogni giorno passeggio al tramonto per godere un po’ della vista e dello spettacolo che la natura può offrire, per distogliere l’attenzione e lo sguardo dagli schermi, per mettere in moto il mio corpo e la mia anima, per dare loro la possibilità di nutrirsi di verità.


Quello che noto (sempre più) sono coppie o gruppi amici di persone di età adulta (anche anziani), in compagnia, seduti sul muretto di fronte al mare, con uno spettacolo meraviglioso che prende forma dinanzi a loro, in silenzio tombale con lo testa fissa sul cellulare.

Alcuni di loro scrollano i social network, altri guardano video (a tutto volume) su piattaforme varie, dall’utilità discutibile.

Non si guardano tra loro, non interloquiscono e non alzano mai lo sguardo dai dispositivi.

Non si tratta di casi isolati, sono davvero molto frequenti e lo abbiamo fatto, almeno una volta, tutti noi.

Io resto, sempre, meravigliata come se non conoscessi quello che si nasconde dietro, come se non avesse in passato riguardato anche me.


Troppo spesso liquidiamo le nuove generazioni come se fossero una massa di tecnodipendenti senza assumerci alcuna responsabilità, come se non lo avessero appreso e imitato da qualcuno.



Siamo tutti dipendenti dai social network.



Gli studi che ho effettuato negli ultimi anni mi hanno permesso di approfondire le basi della cyberpsicologia e tutti i meccanismi che muovono la nostra tossicodipendenza: i social network sono la più grande dipendenza di massa della storia ma, essendo per l’appunto di massa, è socialmente accettata e di sovente banalizzata.


Quando qualcuno ci parla degli effetti devastanti che questi strumenti hanno sulla nostra psiche, sul nostro umore, sulla nostra attenzione e sulla nostra intelligenza lo liquidiamo presto come un “boomer” che contrasta l’avanzamento tecnologico, avanzando azzardati paragoni con periodi storici precedenti e con i tentativi passati di ostacolare l’evoluzione tecnologica.


In una società sana, in un Paese sano, non ci si limiterebbe a vietare il cellulare a scuola: serve a poco di per sé. In una società sana, in un Paese che ha davvero a cuore la salute dei propri cittadini e delle future generazioni, si andrebbe nella direzione legislativa che punisce e multa tutte le big tech che generano continuamente profitti sul nostro stato di dipendenza.


La verità è che ai governi non conviene mettersi contro i colossi e che noi siamo troppo pigri per metterci in discussione.

Parliamo superficialmente di digital detox, convincendoci che sia sufficiente un weekend in montagna o nel verde senza dispositivi per riprenderci tutto quello che ci è stato rubato in termini di salute, di concentrazione e di serenità nel corso degli anni.



Questo non basta: è solo una menzogna che raccontiamo a noi stessi.



Alla base del funzionamento degli algoritmi ci sono fondati studi cognitivo - comportamentali tradotti in tecniche di ingegneria sociale: guidano il nostro comportamento che arriva a influenzare il nostro pensiero. 


Pertanto è fondamentale darsi delle regole ben precise per autodisciplinarsi e rieducarsi a delle nuove abitudini.

Io non sono ancora riuscita a rinunciare all’utilizzo totale dei social network, è difficile ed è importante partire da questa consapevolezza.

Sono riuscita però, negli ultimi anni, a limitare notevolmente il tempo trascorso su di essi.


L’impatto iniziale sulle mie relazioni sociali (soprattutto quelle che erano in vita quasi esclusivamente a interazioni digitali) è stato non indifferente: più di una persona, nel momento in cui ho cambiato il mio approccio nell’utilizzo di questi strumenti (non più condivisione di selfie, momenti intimi o vita privata) mi ha chiesto se fossi ancora viva.


Questo ha portato a pormi domande sempre più importanti tra cui: cosa significa essere vivi? Quante di queste relazioni, nella vita reale, sono un vero valore aggiunto per me e per la mia crescita personale?


Qui sorge la prima vera grande paura su cui i social network fondano la propria ricchezza: se non vengo visto, non esisto. Se non posto, non esisto. E se non esisto, chi sono? 


Ciò accade perché abbiamo sempre più confuso e sovrapposto la nostra identità con quella digitale, a discapito di relazioni reali.

Alcune amicizie, non tutte per fortuna, mantengono la loro finta sopravvivenza grazie a interazioni messaggistiche, che a volte avvengono più per senso di colpa o per semplice accondiscendenza che per il desiderio reale di continuare a coltivare davvero quel legame.


Si affida ai social network anche il proprio successo personale: cosa ne è della mia gratificazione se anche gli altri non possono vedere quanto sono bello/a, bravo/a, riconosciuto/a?


Ma gli altri chi?


Si tratta di altri indefiniti, con molti dei quali non abbiamo mai neanche bevuto un caffè.

Davanti a una gioia profonda, così come di fronte a un dolore profondo, non alziamo più la cornetta del telefono per condividerli e verbalizzarli con le persone che più amiamo e che più ci amano e che ci amerebbero a prescindere, ma tramutiamo immediatamente il nostro dolore o la nostra gioia in un post da scrivere sui nostri profili social per condividerlo con una rete di sconosciuti.


Così, se abbiamo appena perso una persona cara, grazie alla dopamina derivante da like, commenti e incoraggiamenti, sentiremo un po’ meno il vuoto incolmabile e il dolore ingestibile che proviamo.

Questo, però, sarà solamente un finto anestetico perché tutto quello che non elaboriamo nel profondo, tutto quello da cui non ci lasciamo attraversare, alla fine ci viene sempre a chiedere il conto.



Noi dobbiamo vivere il vuoto e il dolore, così come la gioia, per cercare di essere umani sani e in equilibrio, ma non siamo più abituati a farlo.



La noia ci spaventa a morte, il vuoto e il dolore non sappiamo neanche più definirli.

La società delle performance ci ha educato a essere brillanti e resilienti; una parola, “resiliente”, svuotata di significato a causa del suo utilizzo inflazionato negli ultimi anni e che è finita semplicemente per divenire il nuovo manifesto del capitalismo.

E così ricerchiamo in una rete informe di alter ego digitali una risposta all’incomprensibilità della vita, illudendoci di trovarla in qualche emoticon o in qualche abbraccio virtuale.


La nostra mente, però, non funziona e mai funzionerà così.


Abbiamo attraversato millenni di evoluzione ma i bisogni primari dell’essere umano sono sempre rimasti gli stessi: nutrirsi, socializzare, amare ed essere amati e non è possibile fare tutto ciò attraverso uno schermo.

Per mangiare dobbiamo mettere le mani nei nostri piatti, per socializzare veramente dobbiamo guardare negli occhi gli altri, sentire l’imbarazzo delle conversazioni in cui non vorremmo trovarci e vivere il disagio delle conversazioni difficili, trovare le parole giuste perché nella realtà non possiamo bloccare nessuno, come invece accade sui social network.


E per amare ed essere amati dobbiamo accettare l’idea che l’amore è quanto di più incomprensibile esista, che può essere allo stesso tempo emozione, gioia, dolore, apatia e che mostrarne a una massa di sconosciuti solo la sua parte più invidiabile, con una patina di finzione, fa male a tutti, prima di tutto a noi stessi.


Sveglia analogica
Digital detox: come fare


Quali pratiche ho adottato io per diminuire il tempo trascorso sui social network?



  1. Ho comprato una sveglia non connessa, e non connettibile in alcun modo, alla rete wifi. Si tratta di una sveglia digitale (che ho preferito a quella analogica solo perché mi dava la possibilità di scegliere tra cinque diversi tipi di suoni naturali).



  2. La sera, prima di andare a letto, metto il telefono in un’altra stanza e sul mio comodino punto la sveglia (il modello che ho acquistato, e ve ne sono tantissimi in commercio, consente di impostare più sveglie e anche l’opzione di rinvio di cinque minuti).

    Questo mi ha permesso di eliminare la tentazione dello scroll su social network prima di dormire: se ho sonno dormo, se non ho sonno leggo. 


    Sul mio comodino ho sempre più di un testo da leggere: questa piccola abitudine mi ha permesso di aumentare notevolmente il tempo dedicato alla lettura e, soprattutto, di non cedere alla tentazione di guardare il mio cellulare appena sveglia.

    Si tratta di un atteggiamento che accomuna molte persone: prendere il cellulare per spegnere la sveglia e poi guardare, quasi in automatico, le notifiche o l’app di messaggistica per verificare se e cosa durante la notte è sfuggito alla nostra mania di controllo.

    Quindi faccio colazione e solo dopo prendo in mano il mio cellulare: è un’abitudine che consente di fare colazione in maniera disconnessa senza permettere alla “rete informe” di condizionare il nostro umore nel momento in cui siamo più fragili e con meno difese mentali: il risveglio.


n.b. per chi ha figli o genitori anziani verso i quali è importante essere raggiungibili in caso di necessità è comunque assolutamente fattibile.

Basta riporre il telefono lontano dal letto (magari per terra vicino a una presa elettrica, o in una stanza contigua da cui si sentirebbe comunque), disconnettere i dati e lasciare semplicemente la suoneria alta.

Educhiamo anche i nostri figli e i nostri parenti a utilizzare la telefonata (piuttosto che il messaggio) in caso di urgenze o di emergenze.



  1. Ho impostato un timer per ogni app.

    Ho deciso quanto tempo voglio passare su ciascun social network al giorno (un limite massimo di tempo impostabile su ogni smartphone).

    Quando supero la soglia di questo tempo mi viene bloccato l’accesso all’app: certo posso modificarlo nel caso volessi accedervi nuovamente, ma lo vivo come una sconfitta e quindi il giorno dopo proverò a superare la sfida con me stessa: in questo modo educo il mio cervello a guidare le sue scelte e non a farsi guidare da un algoritmo.



  1. Ho eliminato ogni tipo di notifica: social network, email, Whatsapp.

    Il mio telefono non emette nessun suono o segno visivo in nessun caso, tranne quello in cui c'è una telefonata in entrata.

    Molte persone non lo fanno perché temono di perdere il proprio essere “responsive”, ma questa è semplicemente una credenza appresa.

    Anche senza notifiche controlliamo più volte le nostre app di messaggistica e quelle legate al lavoro: verificate il numero di sblocchi quotidiano sul vostro telefonino e ve ne renderete conto. Quindi non serve anche un alert continuo che ci tenga sul chi va là mandando in cortocircuito la nostra amigdala.



  1. Quando esco fuori a cena, per una serata o anche per una semplice passeggiata con i miei amici o il mio partner o la mia famiglia nel tempo libero, disattivo ogni tipo di suoneria sul mio telefono (chiamate in entrata incluse) e lo ripongo nella borsa (per chi ha genitori non autosufficienti o figli/e o necessità di reperibilità vale la stessa annotazione del punto n.1: eliminate le suonerie legate alle notifiche e lasciate attiva solo quella legata alle chiamate in entrata).

    Non prendo il cellulare mai, anche nei momenti naturali di noia che possono innescarsi pure assieme ad altre persone. Mi concentro sulle relazioni reali, parlo, mi confronto e, se proprio non c'è nulla da dire, osservo il mondo attorno a me. Questo, spesso, mi porta soprattutto durante le serate o le giornate di relax a riposarmi davvero, a trovare nuovi stimoli e a non accedere alcun tipo di social network per ore.


  1. Nel tempo “vuoto”, in cui proprio non ho nulla da fare provo a dedicarmi alla lettura, ad attività di decluttering che mi consentono di lavorare sulla benefica pratica del minimalismo (per approfondire leggi la sitografia al termine di questo articolo), al giardinaggio, a passeggiate senza meta, a scrivere.

    Qualsiasi hobby manuale, soprattutto nei momenti di stress elevato o in stati di ansia, ci ricondurrà a uno stato di calma naturale, più di ogni altro dispositivo elettronico esistente (che invece nell’illusione della distrazione alimenterà l’attivazione della nostra amigdala e quindi del nostro stato di allerta).



  1. Cerco di circondarmi di amici (scegliendo quelli che realmente voglio nella mia vita) che si mettono in discussione e che mettono in discussione il loro rapporto con la tecnologia, che mi guardano negli occhi se parlo e che non trascorrono le loro serate condividendo reel o stories su Instagram.

    Si è meno tentati dal prendere un telefono in mano se nessuno della nostra compagnia lo prende.

    Parimenti cerco di far notare a chi è con me se un comportamento automatizzato (come scrollare i social mentre siamo seduti attorno a un tavolo a bere una birra), in maniera ironica o seriosa a seconda dei casi, che si sta allontanando dal reale motivo per il quale è uscito di casa in mia compagnia.

    Se il comportamento è reiterato e io non mi sento accolta o ascoltata (insomma se alla mia compagnia viene preferita quella del cellulare)  riduco le uscite con quella persona. 



  1. Ho eliminato gli ultimi accessi su tutti i social e app di messaggistica (e le fatidiche doppie spunte blu su Whatsapp).

    Questo consente ai miei contatti (familiari compresi) di non entrare nell’ansia da risposta se visualizzo e non rispondo e consente a me di gestire il tempo di risposta nella maniera che ritengo migliore per la mia salute psicofisica.

    Non sempre mentre leggiamo un messaggio abbiamo il modo e il tempo di rispondere: magari stiamo facendo altro e non vogliamo distarci dall'attività in cui ci stiamo impegnando o magari vogliamo semplicemente prenderci del tempo per riflettere prima di dare una risposta.

    Cerco di educare i miei contatti (e i miei familiari) al non obbligo della risposta immediata. Quello che domando sempre, quando qualcuno mi “rimprovera” di non aver avuto una risposta nell'imminente è: “Prima come facevamo?” (Su questo tema ho dedicato un pezzo intero che vi invito a leggere qui).



  1. Cerco di non condividere quasi mai aspetti della mia vita privata sui social network: niente selfie con il mio compagno, con i miei familiari o foto delle serate con i miei amici: a cosa servono realmente se non a convincere i miei contatti digitali che anche io ho una vita felice e soddisfatta?

    Provo, quindi, a condividere solo contenuti che hanno a che fare con il mio lavoro o contenuti che ritengo possano essere utili anche agli altri ( e non solo al mio ego): riflessioni sulla politica, sulla società, denunce di ingiustizia, scritti ispirazionali o immagini di panorami belli da ammirare che possano essere di nutrimento per la nostra anima.



  1. Monitoro periodicamente il mio tempo trascorso sui social network e mi pongo degli obiettivi per abbassarlo sempre più impegnandomi meglio nelle nuove abitudini su cui sto lavorando.



  2. Cerco di coltivare il silenzio.

    Releghiamo il silenzio all’inutilità, perché non è tangibile, non è misurabile, non è monetizzabile.

    Coltivare l'arte del silenzio, invece, può salvarci la vita. Ne ho scritto qui.



Riprendere in mano il proprio tempo di qualità, la propria attenzione, la propria concentrazione e la propria energia è ancora possibile.

Se non interveniamo per noi, e per le nuove generazioni, gli effetti sul nostro cervello saranno sempre più insanabili.

Vi lascio con una sezione bibliografica per approfondire l’argomento e trovare nuove ispirazioni attraverso dei saggi e una sezione sitografica per approfondire con la visione di inchieste e documentari.


Scegliete di inciampare nella bellezza.



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Bibliografia


  • Johann Hari: L’attenzione Rubata.


  • Jaron Lanier: Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social.


  • Giulio Vincent Gambuto: Spegni quel c**o di telefono: riprenditi il tuo tempo in un mondo che ogni giorno ti sommerge di str***te.


  • Andrea Colamedici e Maura Gancitano: Prendila con filosofia. Manuale di fioritura personale.


  • Andrea Colamedici e Maura Gancitano: La società delle performance. Come uscire dalla caverna.


  • Gianluca Gotto: Profondo come il mare, leggero come il cielo. Un viaggio dentro se stessi per trovare la serenità.


  • Marie Kondo: L’arte del riordino.


  • Pablo Servigne, Raphael Stevens, Gauthier Chapelle: Un’altra fine del mondo è possibile. Vivere il collasso (e non solo sopravvivere).


  • Ann Lembke: L’era della dopamina. Come mantenere l'equilibrio nella società del «tutto e subito».


  • Jonathan Haidt: La generazione ansiosa: come i social hanno rovinato i nostri figli



Documentari






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